Recuperare i Racconti sulle Stelle delle Popolazioni Indigene

Come le costellazioni perdute degli indigeni nordamericani possono collegare la cultura alla scienza e ispirare la prossima generazione di scienziati.

“Stanno uscendo”, dice Wilfred Buck. “Stanno iniziando ad apparire”.

È una notte gelida sulla riva del lago Winnipeg nelle zone rurali di Manitoba, in Canada, e stiamo aspettando le stelle. Siamo ai primi di maggio, ma indosso tre maglioni e mi rannicchio accanto a un fuoco crepitante, ascoltando Buck mentre ci racconta le storie delle costellazioni di cui non avevo mai sentito parlare fino a stasera.

“Proprio sotto la Nonna Ragno si trovano le Pleiadi, le sette sorelle”, afferma Buck. “E questa parte del cielo si chiama Pakone Kisik. Il buco nel cielo. E il buco nel cielo è da dove veniamo”.

Wilfred è Cree, detto anche Ininew, uno dei maggiori gruppi canadesi delle Prime Nazioni. Ci sta raccontando delle storie che ha raccolto dalle comunità indigene del Manitoba, come quella della Donna delle Stelle, di come vide la Terra da un’altra dimensione, cadde attraverso il buco nel cielo e divenne il primo essere umano su questo pianeta.

“Veniamo dalle stelle”, dice Buck.

Quando la maggior parte di noi guarda il cielo notturno, siamo abituati a vedere storie non di origine indigena, ma di origine greca o romana: Andromeda incatenata a una roccia, Perseo che stana un mostro marino, Ercole che sconfigge un leone. Ma proprio come le persone delle prime civiltà occidentali guardavano le stelle e ne raccontavano le storie, così hanno fatto anche gli indigeni di tutto il mondo. Nelle comunità nordamericane, le stelle ospitano orsi, capanne della purificazione, tuoni temporaleschi e altro ancora.

Alcune di queste storie descrivono il modo in cui gli indigeni davano un senso al mondo che li circondava: una forma di scienza separata da – ma in relazione a – l’impresa di osservazione, previsione e interrogazione che costituisce ciò che chiamiamo metodo scientifico.

“Veniamo dalle stelle”.

Ma come si collegano le due forme? È qui che entra in scena Wilfred. Fa parte di una corrente che si impegna costantemente a restituire le storie e le tradizioni indigene ai Cree e ad altre comunità indigene. Questo fine settimana è un esempio di questo impegno. Tipis e Telescopes, il nome del raduno, è un incontro di insegnanti indigeni, membri della comunità giovanile locale e, stasera, un giornalista scientifico degli Stati Uniti.

È un fine settimana di storie, astronomia e cerimonie, comprese alcune ore pomeridiane nella capanna di purificazione. Wilfred sta trasmettendo conoscenze e insegnamenti sulle stelle, ma anche storie sulla scienza. L’inclinazione dell’asse terrestre, la precessione degli equinozie, l’aurora boreale e il sentiero singolare che Marte percorre nel cielo notturno.

“Poiché la Terra orbita attorno al Sole più velocemente di Marte, in certi momenti la Terra supera Marte, [e] sembra che Marte faccia un cerchio nel cielo”, dice Buck. “Movimento retrogrado. Quindi lo chiamano Kitom Pampaniw, “circola indietro”. Un altro nome è “Mooswa Acak“, “Spirito delle Alci”. Perché quando un alce viene sorpreso si spaventa e inizia a correre facendo un grande cerchio e poi continua per la sua strada”.

Tre giorni e 2000 miglia dopo, sono ad Ottawa, al Museo della Scienza e della Tecnologia del Canada. È uno dei principali musei di scienza del paese. Alla loro mostra sullo spazio, è possibile ascoltare altre storie sulle stelle, accanto a un telescopio centenario e ad esposizioni sulla radioastronomia.

David Pantalony, curatore di scienze fisiche al museo, mi sta accompagnando in giro per il museo. “Abbiamo qui il muro chiamato One Sky, Many Astronomies“, dice David. “Abbiamo cinque lingue diverse qui: il francese, e poi l’Ojibway, poi il Dakota/Lakota e poi le lingue Cree”.

Sul display vengono mostrate costellazioni greche e romane a colori tenui, su cui sono dipinte le costellazioni delle culture indigene canadesi, belle e luminose: strolaghe, pescatori, tuoni, il buco nel cielo da dove veniamo e Mista Muskwa, l’orso che siede sulle stelle del famoso Gran Carro. Dalle cuffie esce la voce di Buck mentre racconta la storia di quell’orso, un bullo che fu sconfitto dai sette uccelli coraggiosi che formano l’anello che gli occidentali conoscono come Corona Boreale.

Ecco una delle domanda che a volte viene posta a Pantalony: cosa ci fa una raccolta di storie sulle stelle in un museo dedicato alla tecnologia e alla scienza?

“Le persone sono sorprese, ma poi capiscono”, dice David. “È naturale che ogni cultura avesse storie diverse basate sugli elementi di questo enorme baldacchino che spazia da un orizzonte all’altro e che ogni notte si dispiega davanti ai nostri occhi”. Proprio come il telescopio che si trova nel museo, la storia di Marte che circola nel cielo come un alce spaventato diventa anche uno strumento di osservazione astronomica.

Nel 2008, il Canada iniziò con grande dedizione a correggere i torti inflitti dalla colonizzazione. Il processo, il cui obiettivo fu quello di riconoscere i diritti dei gruppi indigeni e formare delle nuove relazioni basate sul rispetto, risultò in quella che è generalmente nota come Commissione per la Verità e la Riconciliazione. Questi accordi, al museo, si trasformarono in un impegno consapevole per includere la cultura e la tecnologia indigene nella storia della scienza canadese, dalle racchette da neve ai racconti sulle stelle.

Il museo si impegnò molto seriamente nel reperimento dei dati, tanto da includere Buck come co-curatore, insieme all’astronoma indigena Annette Lee, che è di origine sia Dakota/Lakota che Ojibway.

“Per quanto si possa pensare che la scienza sia totalmente razionale, che sia immune dalla cultura, semplicemente non è vero. La scienza non è, in realtà, separata dalla cultura”, afferma Annette Lee. “Viene da una cultura specifica, quella dell’Europa occidentale”.

Ciò che intende Lee è che l’immagine che abbiamo della scienza è stata modellata dalla storia dell’Europa occidentale e dai pregiudizi di quella cultura.

Ma la scienza è qualcosa di cui può occuparsi chiunque e – afferma Lee – se ne sono occupati tutti. Il processo in teoria è semplice: osservare attentamente il mondo, testare ciò che si impara e trasmetterlo alle generazioni future. Il fatto che le culture indigene lo abbiano fatto senza provette non rende le loro osservazioni meno scientifiche, sono semplicemente diverse.

Il giorno in cui ho visitato il museo, era presente anche un gruppo di studenti della vicina Gloucester High School. Sono tutti indigeni, tra cui Jessie Kavanaugh, che è Anishinaabe, di una Prima Nazione chiamata Animakee Wa Zhing nell’Ontario nordoccidentale. “E sono del Clan degli Orsi”, dice Jessie.

Al museo, da nuovi arrivati, esplorano le costellazioni ruotando le immagini del cielo per vedere la disposizione delle stelle nel giorno e all’ora in cui sono nati. Gli animali entrano ed escono dalla cornice circolare: una tartaruga, un ragno, un uccello del tuono e un orso predatore di nome Mista Muskwa.

(Da sopra, e da sinistra e destra) mappe stellari dalle Prime Nazioni Ojibway, Dakota/Lakota e Ininew/Cree. Crediti: Wilfred Buck © 2016, Annette S. Lee, William P. Wilson, Carl Gawboy, © 2012, Annette S. Lee & Jim Rock © 2012, and Annette Lee, William Wilson

Ma Kavanaugh mi spiega che le storie che sta leggendo sui muri non sono quelle che ha imparato crescendo.

“Ho 18 anni e le sto imparando solo adesso e ancora non ne so nulla”, dice Kavanaugh. “Forse so più delle costellazioni greche o romane che non delle costellazioni della mia cultura.”

Wilfred dice che questo è un fatto comune nelle comunità indigene. Sia gli adulti che i bambini hanno perduto i racconti sulle stelle e altre conoscenze provenienti dalla memoria collettiva. È una ricaduta diretta dello sterminio degli indigeni da parte dei colonizzatori europei e del modo in cui hanno indebolito i legami con la loro cultura. Dopo aver speso più di 14 anni a raccogliere i racconti sulle stelle dagli anziani indigeni del Manitoba, Wilfred ammette di averne raccolto solo un paio di dozzine.

“Se hai un villaggio di un centinaio di persone e ogni persona conosce una parola di una canzone che contiene un centinaio di parole, tutte queste persone insieme possono cantare quella canzone. Si tratta dell’accumulo complessivo della conoscenza fondamentale del loro popolo”, dice Buck. “E poi una mattina ti svegli e 85 di loro se ne sono andati. E devi ricostruire ciò che ricordi con ciò che hai a disposizione”.

Il risultato di tutto ciò è che le nuove generazioni di questi popoli lottano persino per riappropriarsi della propria lingua di origine. I giovani indigeni guardano verso il cielo di notte e vedono solo le storie dei Greci.

Al museo, nessuno degli studenti – tutti di 17 e 18 anni di età, pensando al futuro – pensava di voler diventare uno scienziato. Questi sono studenti che dicono di amare la conoscenza della botanica, della medicina, dell’ingegneria. Uno di loro ha persino preparato interi piani di studi scientifici per i bambini dei campi estivi.

“La parte astronomica è stata davvero fantastica, perché sono ossessionato dalle stelle”, dice Kavanaugh.

Kavanaugh e i suoi compagni di classe sono proprio gli studenti più adatti a conseguire il certificato STEM. Eppure Jessie afferma di sentirsi come se non riuscisse ad adattarsi al modo in cui la scienza viene studiata e praticata.

“Non voglio occuparmi di scienza occidentale”, dice. “Non voglio dover scrivere continuamente ogni cosa. Conservo tutto nella mia testa perché è nel mio DNA fare così, capisci? ”

Nel 2012, l’amministrazione Obama ha fissato l’obiettivo di aumentare di 1 milione i titoli di studio STEM per soddisfare le crescenti esigenze economiche e tecnologiche del prossimo decennio. Ma come si fa a reclutare così tanti giovani scienziati? E come fare ad invitare tutti quelli che – come Kavanaugh e i suoi compagni di classe – si sentono esclusi? Pantalony afferma che il primo passo è ampliare l’immagine della scienza e di chi la pratica. Raccomanda di dare maggiore credito agli scienziati non occidentali, sia antichi che moderni, e di guardare oltre gli stereotipi dei camici da laboratorio, provette e acceleratori di particelle.

“Quando scopri cos’è veramente la scienza: osservare, creare, fare, porre delle buone domande, fallire…” dice Pantalony. “Questo è ciò che amo della scienza. Lo senti dire sia dai bambini, sia dai vincitori del premio Nobel”.

Jordyn Hendricks, un altro studente al museo, è un Métis della Red River Nation. Dicono che riconoscere il contributo degli indigeni alla scienza e alla tecnologia sia importante di per sé.

“Siamo visti come primitivi o persone non molti brillanti. Ma molto brillanti lo siamo stati”, dice Hendricks. “E capire e riconoscere questo fatto è importante”.

Sia per Lee che per Buck, portare le storie sulle stelle nelle sale principali dei musei della scienza canadesi non significa solo condividere la conoscenza indigena con i visitatori occidentali o espandere la visione di cosa sia la scienza. Riguarda anche il futuro delle comunità indigene che si stanno ancora riprendendo dai danni della colonizzazione.

Sia in Canada che negli Stati Uniti, i giovani indigeni hanno il più alto tasso di suicidi di qualsiasi altro gruppo razziale o etnico. Anche le comunità indigene sono state duramente colpite dall’epidemia di oppiacei e anche i giovani indigeni hanno alti tassi di senzatetto.

Letteralmente e figurativamente, dice Lee, i giovani se ne vanno. Manca la speranza.

“Fa parte di ciò che porta la conoscenza delle stelle”, dice Lee. “Il senso di avere uno scopo, il senso della speranza, questa linea di vita a cui ogni persona è connessa – connessa al complesso più grande, l’universo, le stelle. Quelle stelle sono più che delle semplici palle di gas. Quando facciamo scienza indigena, consideriamo quelle stelle come i nostri parenti più anziani”.

“Ho trovato un pezzo che mancava nella mia vita”.

Lee spiega che questo senso di connessione è una caratteristica essenziale della scienza indigena. Nella scienza occidentale, la conoscenza è spesso considerata separata dalle persone che la scoprono, mentre le culture indigene vedono la conoscenza come intrinsecamente connessa alle persone.

“Quindi non siamo solo degli osservatori esterni che osservano tutto questo”, dice Lee. “La cosa fondamentale è che ne facciamo parte”.

Le storie sulle stelle possono riunire comunità spezzate? Per Buck, quella connessione con la sua storia è stata una parte fondamentale del rifiorire della sua vita. Da adolescente, la sua famiglia era stata dispersa dalla povertà e divenne un senzatetto per le strade di Vancouver. Così, gli anziani Cree avevano invitato lui e altri giovani a Manitoba per conoscere la loro cultura.

“Ho trovato un pezzo che mancava nella mia vita”, dice Buck. “Ho trovato qualcosa che per me aveva un senso. Ho trovato qualcosa che era nostro.

“È stata una cosa potente”.

Fu un viaggio che alla fine lo condusse verso le stelle.


Fonte testo e immagini: Relearning The Star Stories Of Indigenous Peoples, di Christie Taylor.
Traduzione: Alessandra Ricci